Trasformare il cemento: l’impatto della riqualificazione urbana sugli spazi d’arte indipendenti di Pechino
Zandie Brockett
Quando il mio risciò svoltò l’angolo per imboccare Jianchang Hutong erano in corso un turbinio di attività. Una ventina di uomini poco più che liceali, sebbene probabilmente sprovvisti di ogni titolo, indossavano le tipiche divise nere dei teqin (guardie speciali).
Questi teqin, operai edili, squadre di lottatori che dir si voglia erano intenti a mettere in atto il nuovo piano di “abbellimento urbano” approvato dal governo centrale, volto a ‘ripristinare’ gli hutongs e a riportarli alle loro ‘condizioni originarie’, precedenti all’intercorso sviluppo urbano. In realtà, si tratta di un piano per liberare la città dallo “sviluppo fuori controllo e da un’imprenditorialità di ‘fascia bassa’, espellendo contemporaneamente milioni di migranti [interni]” che nel corso degli ultimi due decenni hanno fatto di Pechino la propria patria. Si tratta di un piano volto a consentire lo sviluppo di una “capitale futuristica del governo, della finanza, dei mezzi d’informazione e della tecnologia” (NY Times), nonché una mossa che anticipa il prossimo Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, previsto per quest’autunno.
Avviato a malapena sei mesi prima di tale appuntamento, questo processo di demolizione ha poco a poco interessato non solo gli hutongs, ma l’intera città, molti dei villaggi per migranti e di quelli provvisori sorti nella periferia di Pechino, e, più in generale, l’intero Paese. Invadendo violentemente i territori e le menti dei cittadini e imponendosi negli spazi pubblici e all’interno delle mura domestiche, l’incessante attività dei martelli pneumatici e i cumuli di detriti che altro non fanno se non confermare la distruzione in atto stanno innegabilmente trasformando la vita negli hutongs, con tutte le inevitabili ripercussioni che ciò comporta sugli spazi indipendenti di Pechino.
Ad aprile, Aotu, uno spazio espositivo indipendente nonché hair studio, è stato costretto a rinunciare al secondo piano e alla terrazza ricavata sul tetto sovrastante, fino ad allora utilizzati come luogo di incontro e ‘abbeveratoio’ dei creativi indipendenti di Pechino. Fortunatamente, la sua funzione di caffetteria con galleria e sala proiezioni annesse non è venuta meno. Wujin, breakfast bar e libreria indipendente, gestita dai fondatori di Arrow Factory, Rania Ho (USA) e Wang Wei (Cina), ha ricevuto in visita il suo fatale destino una settimana di inizio agosto: ad oggi, il locale è ancora chiuso.
Fortunatamente, Arrow Factory ha saputo fare meglio i conti con il destino. L’artista Yang Zhenzhong ha installato delle “recinzioni”: un muro di mattoni intonacato e pitturato di grigio in sostituzione della precedente parete di vetro, che permetteva ai passanti di poter osservare senza alcuna difficoltà le istallazioni site-specific presenti all’interno. Sul muro, a metà altezza, si trova un vetro oscurato frammisto a sbarre simili a quelle di una prigione. I passanti che si affacciano per scrutare cosa ci cela oltre la ‘finestra’ non riescono a scorgere nulla. Al contrario, una telecamera a circuito chiuso collegata a un proiettore ubicato in un luogo ignoto ne riprende ogni movimento. L’istallazione di Yang è un’allusione sottile alle vittime imprigionate, vale a dire a ciò che noi stessi siamo divenuti per ordine di un Grande Fratello sempre più vigile.
Sono anche altri gli spazi che hanno subito delle trasformazioni, sebbene più per ragioni connesse alla provvisorietà propria della vita degli espatriati. Chen Shuyu e Max Gerthel, co-fondatori dell’Institute for Provocation (IFP), rinomato spazio di lavoro e residenza d’artista, hanno fatto ritorno in Svezia, nella propria madrepatria. Curiosamente, il nuovo collettivo che gestisce i programmi dell’IFP conta tra le sue fila soli membri cinesi: due giovani artisti, Hu Wei e Dai Xiyun, la critica d’arte Song Yi e Chen Shuyu (che continua a partecipare da remoto). Si tratta di un esempio unico, per quanto apprezzato, di ingresso di gente locale nella scena indipendente, generalmente capitanata da figure straniere. La galleria in-home Jiali, fondata e diretta da Daphne Mallet, ha chiuso i battenti proprio quest’estate, con il ritorno di Mallet in Francia. Intelligentsia ha abbandonato lo spazio espositivo a Dong Wang Hutong, posto che i suoi fondatori hanno ritenuto che due anni di sperimentazione fossero sufficienti.
In contrasto con questa tendenza a chiudere i battenti o trasferirsi altrove, l’I-Project Space, guidato dall’ungherese Anna-Viktoria Eschbach e dal tedesco Antonie Angerer si è ampliato. All’inizio di quest’estate, i due hanno aperto un nuovo spazio nell’area circostante il tempio Baitase, leggermente ad ovest rispetto all’asse centrale di Pechino. Il nuovo spazio espositivo ospita inoltre al suo interno due studi messi a disposizione dei residenti. Un’altra novità che ha fatto la sua comparsa in città negli ultimi due anni è la nascita di una serie di spazi, tra cui si annoverano: lo Yue Space, un bar con annesso un negozio di vinili e una live house con molte performance all’attivo; il Fruity Space, uno studio interrato dove si esibiscono musicisti sperimentali; lo Wyoming Project, uno spazio dedicato alle mostre e alle pubblicazioni; il Salt Project, un micro-spazio espositivo; la Hutongπ(pi), un’organizzazione incentrata sulla collettività dedita alla ricerca e all’annotazione di ogni trasformazione subita dagli hutong; e il Q-Space, uno spazio per gente creativa dedito alla legittimazione della comunità LGBTQ+. Ulteriori progetti indipendenti, come il dipartimento per la Ricerca e lo Sviluppo della Sensibilità Sociale (SSR+D) presso la fabbrica Bernard Controls nel quadrante industriale nel sudest di Pechino resta sotto l’egida della società di cui è parte. Progetti quali il SSR+D, che cooperano (nonostante il loro fine ultimo sia quello di sovvertire e distruggere lo status quo) con entità aventi sede legale in Cina, forniscono un modello alternativo e speculativo per creare e organizzare pratiche indipendenti nell’ambito dell’attuale clima politico.
Tuttavia, è possibile che l’irrigidimento degli imperi e l’incremento di frontiere fisicamente sempre più opprimenti obbligherà la scena indipendente a tornare a indossare le vesti della clandestinità, meditando sulla sue poliedriche attività sperimentali per poi riemergere, qualche anno più tardi, con ancora più forza e vigore. Recentemente, ho iniziato a pensare al possibile riaffioramento di quelle pratiche sperimentali e performative che dominavano la scena artistica degli anni Ottanta, prima che questa fosse assoggettata alle richieste del mercato o a necessità istituzionali. Quelle pratiche che venivano coltivate in nuovi – eppur abbandonati – parcheggi (poiché le macchine non erano ancora un mezzo di trasporto alla portata di tutti) o nelle cantine vuote di edifici residenziali di nuova costruzione prima ancora che i migranti interni raggiungessero Pechino. Ed allora ho pensato, parlandone con una mia amica: “se il partito comunista cinese ha mosso i primi passi nell’intimità di una concessionaria francese, immagina cosa si potrebbe tramare dietro a delle porte chiuse!” La mia amica mi ha guardato incuriosita. Ma forse perché aveva colto quella scintilla di entusiasmo che illuminava i miei occhi, condizionata da decenni di spregiudicata trasformazione urbana, o semplicemente perché preoccupata dall’amministrazione attuale, ha intelligentemente replicato: “Sì, ma allora il governo fece finta di non vedere. Ora non ne sarei così sicura”. Vedremo cosa accadrà una volta che le acque si saranno acquietate.
Riferimenti
Meyers, Steven Lee. “A Cleanup of ‘Holes in the Wall’ in China’s Capital,” New York Times, Asia Pacific Desk, Beijing Journal. 17 luglio 2017.