Una conversazione sull’architettura indipendente
Herkes İçin Mimarlık (Architecture for All) and Elena Motisi
E.M.: Che cosa significa per voi la qualifica di “indipendenti”? Perché vi ritenete tali?
H.İ.M.: Nel contesto attuale, caratterizzato da un mondo “dipendente e connesso”, essere indipendenti significa poter esprimere il proprio pensiero e realizzare le proprie idee. Noi dipendiamo dalle istituzioni, dalle persone e dalle organizzazioni, anche se vorremmo che non fosse così. Spesso, però, tessiamo le maglie di questa rete di connessioni senza neppure rendercene conto perché è un meccanismo insito nel sistema attuale. Riteniamo però che esistano dei modelli corretti e stiamo cercando di lavorare sulla base di questo inquadramento. Se si vuole prendere parte a un movimento o a un’azione in maniera pro-attiva, occorre disporre di una propria struttura autonoma e indipendente. Diversamente, si devono accettare i condizionamenti esterni. Noi, come Herkes İçin Mimarlık (Architecture for all), stiamo cercando di costruire il nostro programma per non subire le pressioni esterne. Crediamo che continuando a lavorare in questa direzione riusciremo ad essere veramente indipendenti.
E.M.: Come si declina il concetto d’indipendenza nell’ambito specifico delle discipline architettoniche e urbanistiche? In che termini ne risultano modificati la professione e il progetto?
H.İ.M.: Nei sistemi tradizionali, l’architettura e le altre pratiche urbane dipendono molto spesso dal capitale. Se volessimo analizzare la questione, potremmo persino dire che l’architettura è dipendente dal capitale. Anche se solo il 10% della popolazione trae vantaggio da questa modalità di investimento.
Eppure, oggi le cose stanno cambiando, e noi crediamo in tale cambiamento. L’architettura farà proprie nuove modalità d’insegnamento e collaborazione di carattere trasversale, prendendo le distanze dallo status quo. E non si tratta di una speranza o di una richiesta, bensì di qualcosa d’indispensabile.
L’architettura o le altre discipline affini dovrebbero farsi carico delle proprie responsabilità e ricercare nuove possibilità, vagliando nuove idee e percorsi. Riteniamo che questo sia il primo passo per essere indipendenti e prendere le distanze da tutti gli altri fattori di condizionamento.
E.M.: È possibile parlare di lavoro no-profit nei vostri ambiti di attività?
H.İ.M.: Noi siamo un gruppo no-profit. In passato ci sono stati un paio di gruppi come noi e, anche oggi, non siamo gli unici. Il gruppo nasce da un’iniziativa studentesca avviata nel corso dei nostri studi universitari, che si chiamava Ölçek 1/1 (Scala 1/1).
Il nostro obiettivo è quello di promuovere una struttura economica no-profit sostenibile. Ci siamo dati un modello organizzativo di riferimento, ma per realizzare i progetti impieghiamo materiali e mezzi diversi. È quest’eterogeneità nella produzione che ci tiene uniti. Inoltre, ci troviamo spesso a discutere di lavoro “immateriale” e, se da un lato è vero che siamo tutti volontari, riteniamo che essere volontari non significhi lavorare gratuitamente. Per evitare forme di sfruttamento, è fondamentale tenere sempre a mente questo concetto. Tra di noi è ormai un argomento di discussione costante.
E.M.: A mio parete le urgenze possono essere occasione di ispirazione per nuovi progetti architettonici. Gli indipendenti di oggi devono auto-inventarsi temi di progetto in relazione alle necessità del contesto in cui vivono? A questo proposito, individuando una criticità e un potenziale, è possibile darsi una risposta con le modalità proprie di un progetto Self-Initiated? In che condizioni può quindi esistere l’auto committenza?
H.İ.M.: Le situazioni di emergenza rivestono un ruolo rilevante per le nuove discipline e non andrebbero sottovalutate. Tuttavia, l’attrattività intrinseca nell’“emergenza” e le sue specifiche peculiarità, rischiano a volte, di condizionare l’intero programma. Ad esempio, può accadere che temi di attualità coincidano proprio con situazioni di emergenza; in tali casi, il desiderio di trovare delle soluzioni rapide al problema spesso va a discapito di una ricerca e di una comprensione approfondita dello stesso. Riteniamo che l’architettura e le altre discipline affini non possano da sole trovare una soluzione completa a tali questioni. Tuttavia, l’architettura dovrebbe assumersi le proprie responsabilità nella risoluzione di simili problematiche e dovrebbe essere consapevole del ruolo di cui è investita. L’architettura non può infatti essere concepita come una disciplina indipendente, poiché è intimamente connessa con tutto ciò che avviene nell’universo: per questa ragione dovrebbe condividere questi problemi con la collettività. Se riuscissimo a infondere questa mentalità alla comunità, allora sì che sarebbe possibile parlare di una disciplina pluralistica.
Riteniamo che progetti self-initiated e auto-commissionati possano scaturire da qualunque condizione umana. Se si lotta contro gli schemi mentali tradizionali, occorre un sistema di auto-resistenza. Questo è strettamente pertinente con il nostro specifico ambito lavorativo. Come abbiamo detto precedentemente, l’architettura non è una disciplina solitaria: implica infatti una forte collaborazione. Inoltre, se si lavora sullo spazio pubblico, esistono degli ostacoli di carattere centralizzato – quali le istituzioni o i funzionari che ne fanno parte – di cui tener conto. Tuttavia, esistono dei modi per poterli superare e riteniamo che l’architettura debba ricercare tali vie di uscita, tali spazi “liberi”. Ciò che bisogna fare è semplice: prendere l’iniziativa e condividere quanto più possibile.
E.M.: A proposito delle modalità di lavoro: che cosa vuol dire per voi lavorare con i cittadini? Quali sono le strategie per un lavoro condiviso?
H.İ.M.: I cittadini sono come dei colleghi. La partecipazione, che sin dagli inizi ha costituito uno dei nostri principali obbiettivi, si basa sul loro coinvolgimento attivo nel lavoro che svolgiamo. Cerchiamo di raggiungere chiunque possa fornire un apporto utile. Occorre creare delle modalità di partecipazione insieme e a beneficio di chi è disposto a offrire il proprio contributo. La disponibilità è un aspetto importante ma partecipare non è un obbligo, bensì un atto volontario.
Nel nostro lavoro, i cittadini possono prendere parte a ogni fase del processo, dalla progettazione alla sua realizzazione. Facciamo degli inviti aperti, dialoghiamo con chi si è già offerto volontario e ci confrontiamo su chi potrebbe essere coinvolto o meno.
Le modalità di partecipazione variano a seconda del caso specifico. Piuttosto che concentrarci su un’unica modalità, traiamo spunto dal passato per cercare nuovi metodi. La sola cosa certa è che il nostro approccio non è del tipo “abbiamo realizzato questo progetto, ti piace?”, poiché si scontrerebbe con il concetto di partecipazione. Inoltre, riteniamo che la cittadinanza costituisca il nostro trait d’union.
E.M.: A mio parere, ci sono alcuni temi come le emergenze legate ai migranti (possibili soluzioni per l’accoglienza,…), lo spreco edilizio e il derivante abbandono (usi alternativi dell’incompiuto,…), il rapporto critico con il territorio (orti urbani,…) e la crisi politica generalizzata, che possono essere considerati come punto di inizio per attività di progettazione di collettivi indipendenti. Qual è la vostra opinione? Credete che la soluzione a queste criticità possa essere trovata in un ambito istituzionalizzato o al di fuori di questa cornice?
H.İ.M.: Crediamo che il contesto che fa da cornice a una specifica questione, si ripercuota inevitabilmente su di essa, rendendone difficile una categorizzazione tra istituzionale, civile, e così via. Un approccio solidaristico è un punto di partenza essenziale, in quanto catalizzatore di azioni concrete.
E.M.: Quanto la politica influisce sul vostro lavoro? La pressione politica rappresenta uno stimolo o un limite per gli architetti indipendenti?
H.İ.M.: Sebbene le nostre idee non scaturiscano da questioni politiche, i nostri progetti sono generalmente connotati in tal senso. Le nostre attività e le nostre scelte quotidiane sono fortemente connesse alla politica. Si tratta, ancora una volta, di una questione di associazioni. I rapidi cambiamenti che riguardano la nostra geografia politica creano opportunità ma, al contempo, tale condizione di partenza agisce da freno. A prescindere da quanto ci s’impegni, a volte è impossibile creare un programma indipendente dalla politica. Spesso ci troviamo a essere “politici” pur non volendo poiché sono le condizioni a cui accennavo che ti obbligano a prendere una posizione. Tendiamo a vedere queste barriere come un incentivo a resistere. Se così non fosse, le probabilità di trovarsi a rimuginare su una stessa questione senza tuttavia fare nulla di concreto per cambiare le cose sarebbero alte.
E. M.: Trovate che ci sia una corrispondenza tra territori caratterizzati da conflitti e la presenza di gruppi indipendenti? Si può dire che l’intensità della presenza di questi collettivi e delle loro azioni tende a sovrapporsi alla mappa delle emergenze o degli squilibri geopolitici? C’è un rapporto tra le condizioni di conflitto in cui si opera e il modo in cui cambia il paradigma della progettazione architettonica?
H.İ.M.: Data l’affinità delle tematiche affrontate dai diversi gruppi indipendenti, si potrebbe pensare che tra di loro ci sia una connessione. In realtà, però, non è affatto così scontato. Crediamo nell’importanza di risolvere i problemi insieme alle parti interessate del posto, ma ciò non significa che si debba per forza vivere in quei territori. Occorre ricercare e trovare modi alternativi per lavorare con le comunità locali. È per questo che, nonostante la nostra sede sia qui a Istanbul, molti dei nostri membri lavorano altrove e numerosi nostri progetti sono realizzati all’estero. Sappiamo di molte organizzazioni che lavorano seguendo metodologie simili, ossia promuovendo approcci solidaristici, l’apprendimento reciproco e il trasferimento di conoscenze. Sebbene riteniamo e rispettiamo il fatto che le zone di conflitto costituiscano un tema scottante, siamo convinti che ci siano anche altre questioni che richiedano un’urgente azione di carattere collaborativo. Diversamente, un eccesso di attenzione verso le aree di conflitto può facilmente trasformarsi in un nuovo “orientalismo” scollegato dal contesto locale. Quando si lavora in queste zone, è fondamentale comprendere ed essere coscienti dei paradigmi locali. C’è un rapporto innegabile tra questi e le proprie capacità. Ci piace concepire i limiti come incentivi per vedere questi luoghi da una prospettiva diversa.
E. M.: Parlando di strategie, è possibile identificare una prassi di progettazione indipendente univoca o selezionare alcune linee guida per una nuova modalità d’intervento che rispondano alle esigenze del contemporaneo?
H.İ.M.: Delle linee guida possono esistere e, alle volte, sono necessarie quando si vogliono stabilire dei principi e degli obbiettivi di cui tener conto nell’iter progettuale. Tuttavia se ci si limita a seguire le linee guida, senza lasciare spazio alla flessibilità, il successo sarà sempre e solo in misura delle imposizioni contenute in tali linee guida. Sono quindi necessarie delle linee guida flessibili che promuovano la partecipazione e la collaborazione. Riteniamo che queste possano di per sé rappresentare gli strumenti capaci di alimentare l’intero processo, che in ogni caso, si può dire unico. Bisogna essere aperti e pronti a intraprendere strade inaspettate, anche all’interno di percorsi già rodati.
E.M.: Quale tra i vostri progetti ha rappresentato un’azione efficace nell’ambito dei temi da voi indagati?
H.İ.M.: Stiamo realizzando dei progetti sia in aree rurali che urbane. Uno di questi è Abandoned Rural Schools Project, il cui fine è quello di riconvertire gli edifici scolastici abbandonati dei paesini dell’Anatolia che hanno smesso di essere utilizzati a seguito di una riforma che ha interessato il sistema scolastico nel 2000. Il processo ha coinvolto la comunità locale, i responsabili del posto, i consulenti tecnici e i volontari. Attraverso una serie di workshop, Herkes İçin Mimarlık è attualmente impegnato in diverse scuole dislocate su tutto il territorio turco.
Anche Gezi Park1 occupa una posizione di rilievo nel nostro lavoro: si è trattato di un momento di forte inquietudine per la nostra organizzazione, poiché né la società civile né la popolazione di Istanbul sono stati coinvolti nel processo decisionale. Come Herkes İçin Mimarlık, abbiamo deciso di organizzare dei workshop per discutere le affermazioni del governo, secondo le quali la piazza e il parco non avrebbero svolto appieno la loro funzione di luoghi pubblici. I workshop hanno dato vita ai “Gezi Park Festivals”. Pubblicizzavamo gli eventi attraverso i social media, invitavamo musicisti, ballerini e artisti performativi, organizzando workshop e giochi che avrebbero richiamato gente sul posto.
Se il primo Festival ha visto la partecipazione di sole 50 persone, la nostra popolarità è aumentata rapidamente e al quinto festival hanno partecipato oltre 500 persone. I festival hanno dimostrare a coloro che non si erano mai addentrati nel parco, che Piazza Taksim era un luogo tranquillo in cui trascorrere del tempo: rispondeva quindi al principale compito degli spazi urbani: riunire persone diverse. Gezi Park è diventata una piattaforma capace di attirare coloro che hanno a cuore il futuro degli spazi urbani.
E.M.: Lavorando in aree “di crisi”, i tempi del processo progettuale risultano modificati: trovate ci sia una corrispondenza tra l’accelerazione nell’iter progettuale e l’innovazione del risultato?
H.İ.M.: Un’accelerazione temporale o dei vincoli di carattere temporale legati a situazioni di emergenza sono inevitabili. Proprio in virtù di tali vincoli, i risultati a cui si giunge spesso sono più familiari che innovativi. Siamo alla continua ricerca di nuovi modalità operative di fronte a tali pressanti situazioni, ma non siamo sicuri che un atteggiamento radicale rappresenti la giusta strada per progredire in un contesto in cui tutto è predefinito. Tuttavia, alcune azioni o movimenti radicali vedono la luce anche quando si è sottoposti a pressioni del genere.
E.M.: Potreste descrivere brevemente il progetto Mobile Urban Consultation Buro, realizzato per la mostra Istanbul. Passione, Gioia, Furore? (MAXXI, 11-12-2015 / 8-05-2016)
H.İ.M.: In un contesto in cui il costruito è soggetto a rapide trasformazioni, e data l’ emanazione della legge num. 6306 del 20122, abbiamo ritenuto importante esaminare e documentare in che modo il cambiamento urbano degli ultimi anni si sia ripercosso sui cittadini.
Abbiamo quindi deciso di svolgere una ricerca basata sulle seguenti domande:
– Com’è percepito il concetto di rinnovamento urbano dai proprietari immobiliari?
– Il valore dei beni immobili è davvero aumentato vertiginosamente a seguito di tali processi di rinnovamento, così come atteso dai proprietari d’immobili?
– Quanto sono affidabili le aziende di consulenza in materia di rinnovamento urbano che sono spuntate fuori come funghi dopo l’emanazione della legge?
– Le informazioni ricevute dai proprietari d’immobili in merito a tale processo sono sufficienti?
– I proprietari d’immobili possono beneficiare del sistema di sostegno finanziario previsto della legge in questione?
Per analizzare questi quesiti e aprire nuovi canali informativi, abbiamo costruito un “Mobile Urban Consultation Bureau” (letteralmente, Ufficio Mobile di Consultazione Urbana) attraverso cui forniamo servizi di consulenza gratuiti ai cittadini colpiti dagli effetti della legge in luoghi strategici della città. Inoltre, grazie alla rete creata dalla nostra organizzazione, abbiamo potuto intervistare persone diverse e documentare queste conversazioni al fine di promuovere dei dibattiti su una molteplicità di piattaforme.
E.M.: Nel caso specifico di Istanbul, l’“architettura” è compressa tra una realtà costruttiva di derivante dalla macro-urbanizzazione e i gli esperimenti di pensatori rivoluzionari. Quali sono stati a vostro parere i migliori risultati nel campo della progettazione dell’ultimo decennio?
H.İ.M.: Si potrebbe dire la resistenza di Gezi Park. Ovviamente non si tratta di un esempio di progettazione né di un’opera di carattere architettonico. Tuttavia, rappresenta un’espressione di solidarietà che ci mette nelle condizioni di comprendere altre realtà.
E.M.: Cosa vuol dire essere architetti, designer, artisti oggi a Istanbul?
H.İ.M.: Si tratta di professioni impegnate in un’intensa attività edilizia. Sembra che ognuno desideri conquistare la città. Forse è per questo che il governo e le autorità locali stanno ancora celebrando la “conquista di Istanbul”. Siamo impegnati in una lotta infinita per proteggere le nostre idee e la nostra posizione contro le forti pressioni esterne.
E.M.: Le tematiche da voi affrontate sono correlate ad altrettante emergenze caratteristiche del vostro territorio o dei territori in cui operate?
H.İ.M.: Crediamo di poter affermare che è effettivamente così. Gran parte dei progetti a cui ci dedichiamo hanno a che vedere con emergenze quali il diritto alla città, i bisogni educativi, l’auto-organizzazione e l’istruzione femminile.
1 Nel dicembre del 2011, il Primo Ministro, Tayyip Erdogan, e il Sindaco di Istanbul, Kadir Topbas, nel corso di una conferenza stampa tenuta a ridosso delle elezioni, annunciarono con grande entusiasmo il progetto di pedonalizzazione di Piazza Taksim. La sola fonte d’informazione in merito era un video distribuito alla stampa, le cui specifiche diedero adito a molte congetture. Stando a tale video, Piazza Taksim, che rappresenta il cuore virtuale della città, sarebbe stata pedonalizzata completamente, mentre il traffico sarebbe stato canalizzato in gallerie sotterranee. Inoltre, Gezi Park – uno dei pochi spazi verdi incontaminati di Istanbul – era stato individuato come uno dei luoghi da distruggere per ricostruire una caserma risalente al periodo ottomano che, prima di essere demolita negli anni ’40, sorgeva al suo posto. Il progetto ricevette il consenso unanime del Congresso Municipale Metropolitano e fu approvato dalla Seconda Commissione per la Tutela del Patrimonio Culturale di Istanbul, anche in questo caso con l’unanimità dei voti, come “progetto di emendamento del Piano Regolatore”.
2 Nel 2012 il Ministero turco dell’ambiente e dell’urbanistica emanò la legge num. 6306 per mezzo della quale vennero individuati 1.106 ettari di aree 22.000 edifici a rischio in 16 distretti di Istanbul. Stando a quanto sostenuto dal Ministero, questa legge avrebbe interessato 190.000 persone risiedenti in tali aree. L’entrata in vigore di questa legge trascinò Istanbul in un frenetico processo di rinnovamento urbano.